XXXVII.

Aspetti della letteratura e della cultura contemporanee

Si è visto nel capitolo precedente come il decadentismo non solo sembri sigillare lo svolgimento della letteratura romantica ottocentesca, ma anche si proponga come sollecitazione ad un profondo rinnovamento letterario, muovendo da una verifica degli stessi strumenti letterari e insieme da un crescente e cosciente rifiuto della cultura positivistica. Deluso dal bilancio della storia del romanticismo in Italia, avvertito delle carenze, dei limiti, delle contingenze storiche in cui questo si era manifestato, violentemente critico nei riguardi dell’Italia post-risorgimentale, conscio di aver superato certi confini di gusto caratteristici dello svolgimento della letteratura dal primo romanticismo al verismo e sensibile soprattutto ad un piú attivo contatto con la cultura e la letteratura europee, il decadentismo offriva tutto questo piuttosto come una raggiera di possibilità che non indicando fermamente una via da percorrere. È su questa situazione che si fonda la successiva letteratura del Novecento, con le sue inquietudini, le sue spinte rivoluzionarie e con i suoi attardamenti, con le sue svolte risolute e con le sue irresoluzioni. Dello svolgimento di questa letteratura, inscindibile da una serie di sollecitazioni culturali complesse, daremo nelle pagine seguenti un rapido panorama, inteso ad indicare alcune delle figure che prendono maggior spazio e alcune linee che possono oggi apparire piú decifrabili. Avvertendo però che una prospettiva intera e definita è ancora lontana dal potersi stabilire con sicurezza e proponendo dunque quel che segue come un invito a personali letture e verifiche, base insomma per un piú vasto accostamento che qui, anche nella parte antologica di questo volume, non può che essere sommario.

Preliminarmente aggiungeremo che la letteratura contemporanea si svolge sullo sfondo, o meglio risente e s’interseca continuamente con due diversi momenti di cultura: quello, che si può identificare con la ripresa idealistica, che ha il suo maggior rappresentante in Benedetto Croce, accogliendo all’origine, sebbene in varie direzioni, la battaglia di quest’ultimo contro la cultura positivistica e svolgendosi quindi sotto il segno di uno storicismo di impronta idealistica; e quello successivo in cui si viene manifestando una generale rivolta contro l’idealismo stesso e che, se anche determina una diaspora di esperienze e un accoglimento di sollecitazioni culturali diverse, tuttavia muove da una presa di coscienza storica della realtà italiana suggerita dalla guerra e dalla resistenza e s’ispira alla grande personalità di Antonio Gramsci.

Sono due momenti che hanno un preciso corrispettivo con la storia italiana di questo secolo, caratterizzata da un periodo che va dal grande fervore di rinnovamento sociale e politico che la percorre all’inizio del secolo fino alla cappa di piombo che scende su di essa con la dittatura fascista e che quel fervore arresta; e da un periodo che si svolge dalla liberazione in poi e nel quale è naturale che si avverta bene l’insufficienza dell’idealismo di fronte ai problemi della realtà e della storia, non solo per la parte di questo compromessa direttamente col fascismo, ma anche per la parte che era apparsa valido strumento d’opposizione in un tempo in cui importava una certa unità d’intenti, premeva la necessità di un fronte comune dinanzi al fascismo.

1. Benedetto Croce e la ripresa idealistica

Certamente il peso che sulla cultura europea del Novecento ha avuto Benedetto Croce è stato grandissimo: e va detto innanzi tutto che egli, opponendosi al provincialismo e alla chiusura che positivismo e scuola storica in critica letteraria avevano determinato nell’Italia di ultimo Ottocento, riaprí il paese alle maggiori correnti del pensiero europeo, rimise in circolazione le risultanze della filosofia del periodo romantico, contribuí efficacemente ad una risoluzione delle antinomie che in questa erano rimaste, si riallacciò con vigore alle maggiori correnti del pensiero italiano da Vico a De Sanctis.

Nato a Pescasseroli negli Abruzzi nel 1866, visse la maggior parte della sua vita a Napoli, dopo una parentesi di studi universitari (neppure portati a termine per fastidio verso la cultura accademica vecchia e stantia) a Roma; oltre che alla vita culturale prese parte attiva alla vita pubblica; fu ministro della pubblica istruzione nell’Italia prefascista; durante il fascismo, superate le iniziali incertezze dinanzi ad esso, divenne quasi il simbolo piú noto del rifiuto, del richiamo agli ideali risorgimentali di libertà, in una parola dell’antifascismo; nell’immediato secondo dopoguerra ebbe nuovamente incarichi di governo; morí a Napoli nel 1952. Ebbe una vita operosissima; fu un formidabile lettore e un fecondissimo scrittore; si occupò di filosofia, di critica letteraria, di storia, di erudizione; il suo stile è un esempio di chiarezza intellettuale, di probità e di sobrietà, in una parola di classicità, e anche come scrittore occupa nella letteratura un posto di tutto rilievo.

Della sua iniziale formazione alla scuola del metodo storico si stancò presto, avvertendo le carenze metodologiche e filosofiche di quella erudizione. E se sempre conservò un vivo amore per l’erudizione, la notizia rara e precisa, tuttavia volse presto la sua mente agli interessi filosofici passando dalla meditazione sulla storia (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893) e sulla critica letteraria ad un accostamento critico del materialismo storico. Come primo campo della sua attività filosofica s’indirizzò all’estetica e nel 1902 apparve la sua Estetica, che va considerata base di tutto il suo sistema che s’estende poi all’etica e alla pratica. Stabilita l’autonomia dell’arte, definiva questa come intuizione pura, primo grado della conoscenza, distinta dalla conoscenza concettuale: ambedue momento teoretico, distinto a sua volta dal momento pratico, che si esplica nel criterio dell’utile e in quello dell’etico. L’iniziale concetto dell’arte come intuizione pura maturava successivamente in quello di intuizione lirica (in cui intuizione è sinonimo di espressione) e ulteriormente in quello del carattere di totalità dell’espressione artistica (1918), il che significa che, se l’arte appare autonoma rispetto alle altre categorie dello spirito, tuttavia essa non prescinde dalla circolazione in sé delle altre facoltà spirituali dell’uomo.

A propugnare un’ampia diffusione del nuovo idealismo egli fondava nel 1903 la rivista «La critica», che divenne per un quarantennio e oltre l’organo metodico della battaglia idealistica crociana mano a mano che lo stesso sistema crociano si veniva completando e chiarendo. In essa avviava anche la sua attività di critico con i saggi raccolti poi nei volumi della Letteratura della nuova Italia (1914-1915 i primi 4), profili monografici degli scrittori italiani di fine ’800 e primo ’900, da Carducci a D’Annunzio, da Verga a Pascoli a un’infinità di minori scrittori. Si profilava già qui, nell’atto critico, un concetto che diverrà fondamentale e verrà teorizzato piú tardi (La riforma della storia letteraria e artistica, 1917): che cioè il momento del giudizio critico è anche il momento della storiografia artistica, per cui dei fatti artistici, che sono sempre in sé autonomi e perfettamente definiti, non si può far storia se non con intenti pratici, non scientifici.

I successivi sviluppi dell’estetica crociana, come s’è di sopra accennato, furono seguiti e accompagnati da numerosi lavori critici: fanno seguito alla teoria della circolarità dello spirito le monografie su Goethe (1919) e su Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920); un nuovo momento del pensiero estetico e critico crociano trova espressione nel distinzionismo di poesia e struttura e di poesia e non poesia (La poesia di Dante, 1921; Poesia e non poesia, 1923) e si svolge quindi nella dicotomia di poesia e letteratura dalla Storia dell’età barocca in Italia (1929) ai saggi di Poesia popolare e poesia d’arte (1933), definendosi quindi teoreticamente nel volume La poesia (1936). D’altronde le vicende della riflessione critico-letteraria di Croce risultano parallele a quelle della sua attività di storico e teorico della storia e della storiografia (Teoria e storia della storiografia, 1917; Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, 1921; Storia d’Europa nel sec. XIX, 1932; La storia come pensiero e come azione, 1938; Filosofia e storiografia, 1949). In queste opere egli si richiamava deliberatamente al giovanile saggio sulla storia come arte, sintesi cioè di interpretazione e narrazione dei fatti storici. Caratteristica attuazione della sua storiografia è la Storia d’Europa, un agile libro in cui le vicende europee dell’Ottocento si configurano come lotta per la libertà che i movimenti nazionali e i regimi costituzionali avevano realizzato. In questo modo Croce vedeva nel progresso e nell’affermazione di una classe una conquista compiuta per tutta una società.

Accanto a quella di Croce va ricordata la figura di Giovanni Gentile (Castelvetrano, 1875-Firenze, 1944), che col Croce collaborò nella fondazione del nuovo idealismo e della stessa «Critica» fino alla sua adesione al fascismo. Soprattutto nel campo dell’estetica e della critica la figura di Gentile va ricordata perché egli si sforzò di mostrare la dimensione filosofica dell’arte e, a parte i limiti teoretici di tale atteggiamento, certo va detto che non poco contribuí con i saggi su Dante, Manzoni e Leopardi a spiegare il rilievo del pensiero dentro alle creazioni artistiche.

2. Dal «Leonardo» alla «Voce»

La ventata di rinnovamento culturale portata in Italia dalla ripresa idealistica vivificò direttamente o indirettamente la battaglia contro la cultura positivistica già avviata dalle posizioni decadentistiche. Le iniziative che nacquero a sostegno di tale battaglia furono molteplici, alcune sotto un segno diverso da quello idealistico, sollecitate principalmente da un bisogno di rinnovato e costante rapporto con la cultura europea e mondiale. Cosí è delle riviste dei primi decenni del secolo, che, se non sempre chiare nei propositi, furono certo ricche di quei generali fermenti. Primo in ordine di tempo viene «Leonardo» (1903-1907), fondato e diretto da Giovanni Papini (1881-1956), il quale vi mostrò prontamente il suo ingegno irruente (e anche disordinato, come meglio si vede nel seguito della sua vicenda, dominata da un gusto rumoroso di polemista piuttosto che da una cosciente e paziente volontà di costruzione, caratterizzata da una successione di sbandamenti culturali e ideologici abbastanza vistosi, dal pragmatismo, che egli cercò di diffondere proprio attraverso il «Leonardo», all’idealismo, magari al futurismo, fino al ricovero sotto la bandiera del conservatorismo e del cattolicesimo); segue «Hermes» (1904), diretto da Giuseppe Antonio Borgese (Palermo, 1882-Firenze, 1952), personalità singolare e vivacissima, che proponeva allora un suo programma di rinnovamento romantico appoggiato al suo lavoro di critico (Storia della critica romantica in Italia, 1905) e ad un’esaltazione, criticamente acuta e ben fondata, di D’Annunzio, verso il quale avanzava poi notevoli riserve, come ne avanzava verso il Croce, nel cui sistema avvertiva un varco nella considerazione della storia. Passato al giornalismo, radunava i suoi articoli in un libro di valide individuazioni di gusto e di storia (La vita e il libro, 1910-1913) e piú tardi si volgeva al romanzo (Rubé, 1921) in una dimensione decadentistica bene avvertita della crisi che essa comportava.

Altre riviste di notevole interesse in questo fermentare di tendenze nuove furono «L’anima», diretta da Papini e Amendola, «Il rinnovamento», che raccolse istanze modernistiche, «La riviera ligure», che fu investita da un’attiva esigenza di concretezza: tendenze confluite poi tutte nella «Voce», che accolse i rappresentanti piú significativi di quelle precedenti esperienze e fu un’incubatrice di tanta letteratura e cultura successiva.

«La voce» fu fondata a Firenze nel 1908 da Giuseppe Prezzolini, che la concepí come mezzo per la diffusione del nuovo pensiero italiano (Croce, Gentile) e di alcune esperienze del pensiero europeo (Bergson), radunando intorno ad un gruppo piú ristretto (Papini, Ardengo Soffici, Giovanni Amendola, Giovanni Boine, Piero Jahier, Scipio Slataper) una schiera di giovani scrittori, critici, storici, filosofi, economisti (Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, Gioacchino Volpe, Balbino Giuliano, Aldo Palazzeschi, Emilio Cecchi, Renato Serra, Pietro Pancrazi, Riccardo Bacchelli). È naturale che in tanta varietà di personalità l’impegno della «Voce» si svolgesse nel segno della piú larga disponibilità: va tuttavia riconosciuto ch’essa contribuí alla maturazione delle idealità morali e civili di alcuni suoi collaboratori, che appaiono oggi i piú significativi del ristretto gruppo vociano, Jahier (1884-1966), che affiancava alla satira dell’impiegato fatto estraneo alla vita (Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi, 1915) l’effusione lirica e narrativa di Ragazzo (1919) e il caldo incontro col mondo popolare (Con me e con gli alpini, 1919), Boine (1887-1917), che tentò un’arte intimistica nel Peccato (1913) e fu critico assai fine, spesso in polemica con Croce (Plausi e botte, 1918), Slataper (1888-1915), scrittore autobiografico (Il mio Carso, 1912) e critico (Ibsen, 1916), appassionato, nervoso, denso di un nuovo, umano romanticismo. Il gruppo della «Voce» si andò presto disgregando, e mentre il Salvemini creava «L’unità» (1911-1920) con un programma riformistico, che faceva perno sull’importanza nazionale della «questione meridionale», Papini e Soffici diedero vita a «Lacerba» (1913-1915), che fece proprie, per gusto di vago avanguardismo, le ragioni del futurismo. «La voce» diveniva allora il foglio dell’idealismo militante, per ripiegare poi (1914-1916) su un programma soltanto letterario, sotto la direzione di Giuseppe De Robertis, che riceveva l’insegnamento del Serra (1884-1915), fatto di carducciano tecnicismo e di umanistico amore dei classici e svolto verso un’inquietudine decadentistica nella critica (Le lettere, 1913) come nella meditazione sulla vita (Esame di coscienza di un letterato, 1915).

3. Origini della nuova poesia

Veniva nascendo frattanto una nuova poesia, che assimilava l’esperienza decadentistica italiana e l’associava ad una viva presa di contatto col simbolismo europeo: in essa un piú autentico scavo nel sentimento dell’esistenza coincideva con una ricerca espressiva schiva ugualmente della musicalità melodica tardoromantica e della prosaicità crepuscolare. Veniva cioè tentata la conquista di una parola lirica piú immediata e piú intensa. La storia della poesia del triestino Umberto Saba (1883-1957) ha, piú d’ogni altra di poeti contemporanei, questo valore e significato: muovendo da persistenti echi romantici e crepuscolari della sua prima poesia (Poesie dell’adolescenza e giovanili, 1900-1910) e pur restando fedele ad una tematica elementare di sentimenti e di immagini, la sua vita e la sua città, egli venne irrobustendo la sua libera disposizione al canto da Trieste e una donna (1910-1912) a Preludio e canzonette (1922-1923) a Preludio e fughe (1928-1929) fino alla decisiva svolta di Parole (1933-1934), che registra, in un piú diretto incontro con la poesia italiana del Novecento e in un originale rinnovamento dei modi espressivi del poeta, un approfondimento del suo mondo lirico, svoltosi poi in Ultime cose (1935-1943) in Mediterranee (1946) e in Uccelli (1950). Storia esemplare, radunata in gran parte nel Canzoniere e raccontata dallo stesso poeta in Storia e cronistoria del Canzoniere (1948).

Anche tentato da voci crepuscolari, e quindi futuristiche, fu Aldo Palazzeschi (n. 1885) nelle Poesie (1904-1914, che quelle voci impastavano di una sorridente ironia e che disegnavano figurine tra reali e favolose: L’incendiario, 1910), matrici di molti dei personaggi dei romanzi e racconti nei quali si svolse la sua ispirazione, da Il codice di Perelà (1911), un singolare romanzo che narra delle trasformazioni di un omino tra fiabesco e grottesco e che immerge in un mondo misterioso fitto di colloqui, ammicchi, brusche svolte, a Due... imperi mancati (1920), ai racconti di Stampe dell’800 (1932), che è una rievocazione ironica ma anche affettuosa della Toscana ottocentesca, al romanzo Le sorelle Materassi (1934), vicino al precedente libro nella sua prima parte mentre poi accentua gli spunti ironici, perfino caricaturali, che prevalgono, senza divenir esclusivi, nel Palio dei buffi (1937).

In seguito Palazzeschi ha approfondito temi tra ironici e commossi in forme piú aeree (Bestie dell’800, 1951) o piú organicamente tramate (il romanzo I fratelli Cuccoli, 1948), fino al fantasioso, letterariamente abilissimo libro Il doge (1967), in cui protagonista è la folla di un’ipotetica Venezia trascinata nel giro di assurde voci, supposizioni, paure, liberazioni, tensioni. Situazione e condizione narrativa in parte svolta ancora in Stefanino (1969).

Collaborano diversamente alla formazione di un nuovo linguaggio della poesia, con la ricerca di una parola aspra e petrosa che fissi un’ansia religiosa o viceversa sanzioni un senso terrestremente chiuso della vita, Clemente Rebora (1885-1957) e Camillo Sbarbaro (1888-1919); mentre Arturo Onofri (1885-1928) si vale dello strumento analogico, tentato per varie vie con infinita curiosità tecnica, per comunicare un suo senso cosmico del mistero dell’universo.

Ma le esperienze piú nuove e profondamente rinnovatrici della poesia contemporanea vengono dalla tensione immaginosa, visiva e musicale, che scioglie un originale slancio romantico in forme espressive ferme come oggetti, dei Canti orfici (1914) di Dino Campana (1885-1928), e dalla paziente liberazione dell’intuizione lirica delle cose che regola la poesia di Giuseppe Ungaretti (1888-1970). Questi, nato in Egitto, ebbe una formazione piú europea, e francese in particolare, che italiana: cosí alla tradizione letteraria nostrana egli si può richiamare come alla classicità. La sua parola poetica nasce libera da ogni residuo di prossime esperienze letterarie, si isola nel suo nitido valore analogico, vale, scavata, a comunicare il senso di immediatezza vitale della sua prima poesia (Il porto sepolto, 1916; poi Allegria di naufragi, 1919), nata sovente nel contatto con le esperienze della prima guerra mondiale. Nel seguito (Sentimento del tempo, 1933; Il dolore, 1947; La terra promessa, 1950; Un grido e paesaggi, 1952) acquisisce un sentimento vivo della crisi dell’uomo contemporaneo e della personale sofferenza del poeta.

Qualche apporto alla formazione del linguaggio poetico contemporaneo recano pure alcuni poeti dialettali, tra cui il romano Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950), che svolge una satira bonaria e precisa dei piccoli difetti degli uomini, il milanese Delio Tessa (1886-1939), poeta assai delicato e perfino raffinato nell’uso del suo dialetto, il triestino Virgilio Giotti (1885-1957) evocatore dolcissimo di atmosfere sospese, di momenti delle stagioni della sua città, il veneto Giacomo Noventa (1898-1960), nitido delineatore di figure in sensibilissimi versi.

4. La prosa d’arte e la «Ronda»

Nel 1919 veniva fondata a Roma la rivista «La Ronda» con un programma che intendeva opporre al romanticismo della «Voce», cioè alla volontà di azione, di intervento della letteratura e della cultura nella vita civile, un ritorno al classicismo, cioè un rimeditare i propri autori, una calma di scrittura che si richiamasse ai classici e anche una cautela di fronte all’intervento pubblico, una fase di attesa. Ne fu direttore Vincenzo Cardarelli che propose in essa una lettura di Leopardi in chiave di eloquenza, fondandosi su una sua scelta dello Zibaldone. Se anche alcuni dei suoi collaboratori erano già stati presenti sulla «Voce», occorre riconoscere che il gruppo di scrittori che si radunò intorno alla «Ronda» mostrava chiaramente che alcuni dei fini perseguiti dalla «Voce» erano naufragati dinanzi alla guerra e al dopoguerra tra le tensioni civili e morali che s’erano determinate. La spinta dei rondisti a sottrarsi come intellettuali e scrittori alle contingenze della vita pubblica, a crearsi nella letteratura un rifugio per sé, se era evidentemente il segno dei brutti tempi che sopravvenivano nel paese, era la condizione per una scelta di gusto cosí caratteristica com’è la «prosa d’arte», una prosa stilisticamente curata, lavorata spesso preziosamente, ispirata ai classici, una prosa che fosse piú che esercizio d’invenzione esercizio di controllo e di buon gusto e che si concretava nell’«elzeviro», nel breve saggio spesso di argomento un poco svagato, vera divagazione alla fine, pretesto per un esercizio di stile appunto. Se l’ideale della prosa d’arte fu comune a tutti i rondisti (ed ebbe anche un peso considerevole nella formazione di piú giovani scrittori), tuttavia costoro vi raggiunsero risultati diversi per orientamento e qualità.

Vincenzo Cardarelli (Tarquinia, 1887-Roma, 1959) fu colui che cercò con maggior ostinazione di realizzare la poetica della «Ronda», tanto da poter oggi dire che la «Ronda» fu soprattutto Cardarelli. Nelle Poesie (1936) egli tradusse in brevi frammenti, in rapide illuminazioni, la sua ansietà di stile alto, eloquente, perfetto: il quale trova maggiore articolazione nella patinata lucidità delle prose di viaggio (Il sole a picco, 1929, Il cielo sulle città, 1938) e di fantasia (Viaggi nel tempo, 1920, Favole e memorie, 1925), che suggeriscono il senso di un’inquietudine interiore, di faticata tensione a scrutarsi.

Piú disteso nell’accettazione delle posizioni rondesche, quasi psicologicamente disposto ad esse, fu Antonio Baldini (1899-1962), che perseguí un ideale di scrittura pastosa e di vasto disegno, scaricata di ogni impegno pratico, elegante fino ai limiti della freddezza e del puro giuoco letterario. Prima della «Ronda» aveva già dato un saggio della sua natura in Pazienze ed impazienze di maestro Pastoso (1914); vennero poi il diario di guerra Nostro purgatorio (1918), Salti di gomitolo (1920), Michelaccio (1924), Amici allo spiedo (1931) e le note di viaggio e paesaggio La vecchia del Bal Bullier e Italia di buonincontro.

Ma colui che, evadse dal circoscritto orizzonte rondesco, con un serio impegno di introdurre in Italia esperienze nuove, europee e americane, e approdò ad una pagina ben piú densa e mobile, che è certo il risultato piú alto della prosa d’arte, fu il fiorentino Emilio Cecchi (1884-1966). Dapprima come critico egli diede prova della sua lucida intelligenza, della sua acutezza di giudizio e di sensibilità (Rudyard Kipling, 1911; La poesia di G. Pascoli, 1912; Storia della letteratura inglese nel sec. XIX, 1915); e un’attività critica, rivolta talvolta anche alle arti figurative (Pittura dell’Ottocento, 1926; Trecentisti senesi, 1928), accompagnò sempre in seguito, fino a Scrittori inglesi e americani (1935), Di giorno in giorno (1954), Ritratti e profili (1957), la sua attività di scrittore raffinato, abilissimo tessitore di trame tra fantastiche e umorose, sempre nutrite di una vivida sapienza stilistica, di una ricchezza rara di suggestioni culturali, da Pesci rossi (1920) a L’osteria del cattivo tempo (1927), Qualche cosa (1931), Messico (1932), Corse al trotto (1936), America amara (1939), Periplo dell’Africa (1954).

Nella «Ronda» fu presente, provenendo da un’esperienza che faceva centro intorno ad un vivo interesse per le vicende psicologiche (Il filo meraviglioso di Ludovico Clo, 1911), il bolognese Riccardo Bacchelli (n. 1891); meno sensibile all’esigenza di purezza stilistica della «Ronda», tese a impinguarla del suo gusto per la penetrazione psicologica, delle sue sollecitazioni alla riflessione morale, dei suoi interessi storici. Al tempo della «Ronda» appartengono i drammi Spartaco e gli schiavi e Amleto, dai quali egli passò prima ad un tentativo di espressione lirica (Memorie del tempo presente) o satirica (Lo sa il tonno) e quindi a vaste ricostruzioni storiche come II diavolo al Pontelungo (1927), La congiura di don Giulio d’Este (1931), e al romanzo Il mulino del Po (1938-1840), pur esso larga rievocazione storica di tutto un secolo attraverso le vicende di una famiglia dall’età napoleonica fino alla guerra mondiale. Ma non cadeva la spinta all’indagine psicologica in molti altri romanzi (La città degli amanti, 1929; Una passione coniugale, 1930; Il rabdomante, 1936; Il pianto del figlio di Lais, 1946; La cometa, 1951), né l’interesse storico, specie in parecchi racconti (Il brigante di Tacca del Lupo, 1942) e in opere di saggistica (Il fiume della storia, 1955) che si affiancarono ad un continuato esercizio critico che ha punte di acutezza e finezza in pagine su Ariosto, Goldoni, Leopardi.

All’ambiente rondesco si debbono collegare parecchi altri scrittori: Nino Savarese, Lorenzo Montano, Alberto Savinio, Bruno Barilli, che in varie direzioni testimoniarono di questo gusto di serietà nel mestiere letterario, di questa volontà di riservatezza, calma pensosità che fu il segno della «Ronda».

5. La narrativa dei primi decenni del Novecento

Mentre nella poesia come nella prosa si avviavano esperimenti nuovi per tecnica espressiva e soprattutto per modo di intendere i fatti letterari, non mancò chi cercò un diverso sviluppo delle esigenze manifestatesi nel passaggio dal naturalismo al decadentismo. Nel campo della narrativa si è già accennato al Borgese, che dava, almeno nell’impostazione del suo Rubé, il segno di una consistente novità, e si potrà ora ricordare la figura di Alfredo Panzini di Sinigallia (1863-1939), scolaro di Carducci da cui deriva quel senso della fermezza e classicità della scrittura che è un suo elemento di forza, anche se può condurlo ad un’evasione piú scontata letterariamente verso paradisi di perfezione e di preziosità. Ma va detto che questa classicità e fermezza costituirà anche la base di sostegno delle sue impalcature narrative, pur percorse da un soffio di lirismo, di inquietudine, di vibrazioni piú segrete di chiaro stampo decadentistico mediate sovente da un gusto ironico, che si manifesta maggiormente nelle divagazioni (La lanterna di Diogene, 1909) e nelle prose di viaggi (Viaggio sentimentale di un povero letterato, 1919), ma non manca, anzi si colora di venature fantastiche piú morbide, nelle novelle (Piccole storie del mondo grande, 1901, Fiabe della virtú, 1905) e nei romanzi (La Madonna di mamà, 1916; Io cerco moglie, 1920; Il padrone sono me, 1922).

Se in un ambito panziniano si muove Alberto Albertazzi, un proprio spazio di narratore autentico si definisce il senese Federico Tozzi (1883-1920), che ancora appare in un instabile equilibrio tra naturalismo e decadentismo, ma che si mostra capace di mettere a frutto le punte piú avanzate di questi movimenti. La sua esperienza di scrittore si svolse rapidissima, dopo inizi difficili e contorti per irritate, disperate, violente contraddizioni, da Con gli occhi chiusi (1919) a Tre croci (1920) a Il podere (apparso postumo); opere in cui l’acutezza dell’indagine psicologica si unisce alla forza di penetrazione in determinati ambienti sociali (di piccola borghesia in Tre croci e anche di mondo contadino nel Podere), disponendole in un sistema di strutture narrative spezzate, nervose, articolate in maniera nuova. Non v’è dubbio che il Tozzi usufruiva, dentro una condizione culturale profondamente diversa, della grande lezione di modernità del Verga.

E da questa muoveva un altro narratore piú giovane, il calabrese Corrado Alvaro (1895-1956), che esprime una nostalgica visione della sua terra in saggi e racconti (La Calabria, 1926; L’età breve, 1946; e nei postumi Mastrangelina, Tutto è accaduto) e soprattutto in Gente in Aspromonte (1930), il suo libro piú bello, ricco di una freschezza di rappresentazione diretta, di una partecipazione attiva alla vita sofferta dei contadini calabresi, animato da un continuo soffio lirico che pure regge bene una dimensione narrativa, di un narratore che sa inseguire i sogni, le speranze, il duro scontro con la realtà, i pregiudizi, le debolezze e la forza di gente viva. A questa direzione affiancò l’ansia per la fragilità della condizione e del destino umano nell’epoca presente (Vent’anni, 1930; L’uomo è forte), bene documentata anche nei suoi diari (Quasi una vita, 1950; Il nostro tempo e la speranza, 1952; Ultimo diario, 1959). Timbro di novità ebbero in questi anni l’autentica semplicità e la grazia della narrativa del lucchese Enrico Pea (1881-1958), specie nei romanzi Moscardino (1922), Il volto santo (1924), La Maremmana (1938), e nei racconti Il trenino dei sassi (1940) e Solaio (1941), e la complessa personalità di Massimo Bontempelli (1884-1961), che maturò un suo iniziale futurismo in un’arte densa e gioiosa, teorizzata nelle formule del «novecentismo» e del «realismo magico» nella rivista «900» (1926) e attuata nelle sue opere piú mature, Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930), Mia vita, morte e miracoli (1930), Gente nel tempo (1937), Giro del sole (1941).

6. Eugenio Montale

Se la rivista «900» di Bontempelli era certo documento d’una singolare vivacità culturale, anche nel suo opporsi a piú chiusi programmi fondati su un richiamo alla «Ronda», ma privati dal gusto della classica eleganza di quell’iniziativa, come «Il selvaggio» di Mino Maccari, «L’italiano» di Leo Longanesi, ben piú energica (oltre che diretta in senso opposto ideologicamente), fu l’azione culturale, che affiancò quella politica, di Piero Gobetti (1901-1926). L’ansia di impegni civili dei migliori vociani si chiariva e irrobustiva nei programmi culturali formulati da lui nei vari periodici cui diede vita («Energie nove», 1919; «Rivoluzione liberale», 1922-1925; «Il Baretti», 1923-1928), sostenuti da una severa revisione critica della storia nazionale dell’Ottocento e da una precisa scelta politica liberal-democratica che portava all’assunzione, anche per l’azione stimolatrice di Antonio Gramsci, di coraggiose posizioni antifasciste.

Negli stessi anni in cui Gobetti svolgeva la sua fervida attività di intellettuale impegnato si manifestò pure l’esigenza di offrire nuovi strumenti di informazione letteraria. Nacquero allora varie riviste, come «Convegno», «L’Italia letteraria», «Esame», che pure rivelavano nella loro impostazione la situazione varia, e anche confusa, della letteratura di questi anni, che veniva vivendo, col solo bagaglio dell’idealismo crociano che dopo il ’24 chiarisce il suo deciso antifascismo, sia l’esigenza di un maggior contatto europeo, sia la volontà di consumare ogni residuo dannunzianesimo, sia il disgusto verso una letteratura troppo chiusa in se stessa, sia ancora il tormento esistenziale di fronte alla tragedia che sommergeva il paese e di fronte alle generali condizioni della vita contemporanea.

L’esperienza piú originale e piú densa che affiora in questi anni è quella concretata nella poesia di Eugenio Montale. Nato a Genova nel 1896, voltosi al giornalismo letterario dopo aver rinunciato a completare gli studi universitari, visse lunghi anni a Firenze come direttore del Gabinetto Vieusseux e quindi nel dopoguerra a Milano. La sua attività saggistica (ora radunata in Auto da fé, 1966) è assai importante per comprendere la sua stessa poesia: basterà ricordare la sua intuizione della grandezza di Svevo e in genere non solo la sua acutezza di giudizio, bensí anche la sua forza di lucida penetrazione nelle ragioni storiche delle opere letterarie.

La sua prima poesia (Meriggiare pallido e assorto) risale al 1916 ed è già un documento interessante per intendere la sostanza schiva del suo atteggiamento umano e la sua volontà di una poesia sobria, scandita, antieloquente. Una nozione piú precisa di lui si comincia ad avere in alcune poesie che furono pubblicate in una rivistina torinese, «Primo tempo», uscita dall’ambiente e dalle sollecitazioni gobettiane e diretta da Giacomo Debenedetti. Nel suo primo libro Ossi di seppia (pubblicato nel 1925 da Gobetti e ampliato nel ’28) egli oppone ad ogni scivolamento nell’eloquenza il suo linguaggio «scabro ed essenziale» come quello del mare, che corrisponde ad un’urgenza di rifiuto come condizione esistenziale; e nelle tre maggiori parti di cui questo libro è costituito, «Ossi», «Mediterraneo», «Meriggi e ombre», si trova la documentazione articolata e precisa, negli atteggiamenti e nei concetti come nel linguaggio, di questa sostanza umana e storica. La quale si svolge in una continua esigenza di canto: di qui la classicità che subito molti intuirono nella sua poesia, pur appoggiata a modi spesso aspri, talvolta parlati. Preso nelle maglie dello squallido esistere, il poeta cerca il «punto che non tiene», «il fantasma che salva»: e lo troverà solo nella memoria. È attraverso questa che si stabilisce un contatto con le cose e con gli altri nelle Occasioni (1939), un libro che si comincia a formare all’indomani della seconda edizione degli Ossi e s’apre proprio sul tema della memoria, la sola cosa da salvare contro lo scorrere del tempo che tende a cancellarla, nella Casa dei doganieri. È la memoria che, forse, può dare senso ad un’esistenza che esclude la speranza: e a ritrovarla concorreranno certi simboli (le forme del piombo fuso che si solidifica nell’acqua del Carnevale di Gerti) o certi amuleti come in Dora Markus. Una poesia, questa, nella sua seconda parte (1938) densa di suggestioni e avvertimenti della tragedia della seconda guerra che si sta per avventare sull’Europa, come anche la poesia che chiude il secondo libro montaliano, Notizie dall’Amiata, in cui, ben piú che non nei pur significativi Mottetti, brevi poesie che richiamano un momento del passato attraverso il brusco incontro col presente, va ricercata l’alta risoluzione poetica, il senso profondo dell’umana esistenza che è nella poesia di Montale. Questo cammino prosegue nel terzo libro, La bufera e altro (1956), in cui il poeta attinge una dimensione piú vasta, di attiva partecipazione alla tragedia della guerra e di ansiosa cura per il destino dell’uomo contemporaneo.

Questo terzo libro s’apre con un gruppo di poesie «Finisterre» (di cui la prima è La bufera, assunta a dare titolo al libro), che è l’alto canto con cui Montale dichiara quella sua partecipazione. S’inseriscono in questo tessuto gli elementi che hanno fatto parlare di una religiosità montaliana: che ha da essere intesa (e ben si comprende in poesie come A mia madre o la piú tarda Iride) come un dono non per sé, ma per gli altri, per i quali può essere forza incontaminata. Poesie come La primavera hitleriana precipitano l’uomo contemporaneo nella sua tragedia e non tanto gli disegnano illusori orizzonti di speranza, quanto propongono una risoluzione dell’esistenza nella propria forza interiore, nella propria capacità di resistenza e di fedeltà. Sono le soluzioni cui Montale giunge nelle due poesie, Piccolo testamento e Il sogno di un prigioniero, che chiudono questa raccolta. Cui è seguita un’ulteriore ripresa di poesia con la raccoltina Xenia, dove il tema della memoria, rifugio e forza del poeta, si riaffaccia largamente.

7. Da «Solaria» a «Letteratura»

Nel 1926 a Firenze, sotto la direzione di Alessandro Bonsanti e di Alberto Carocci, fu varata la rivista «Solaria». Una piccola rivista, di modesta tiratura, che visse tra notevoli compressioni (specie quella della censura fascista) fino al 1936: eppure fu essa il crogiuolo in cui ebbe espressione piú attiva il fermento crescente, l’ansiosa ricerca di una svolta che consentisse un diverso livello di percezione della realtà e in cui si poterono formare i maggiori scrittori degli anni seguenti. In essa, infatti, trovarono un punto di contatto le due direzioni della cultura letteraria che nel primo dopoguerra ebbero espressione nella «Ronda» da una parte e nelle riviste gobettiane dall’altra. In essa gli ideali di una letteratura concreta in se stessa, e capace perciò di tenere una propria dignità, poterono affiancarsi e anche in qualche modo sostenere le esigenze di un impegno attivo nella realtà e nella politica che per opposizione il fascismo sollecitava. «Solaria», mentre proponeva decisamente scrittori poco noti e validi proprio per la loro dimensione europea come Svevo e Proust, poteva accogliere la dignitosa letteratura di Arturo Loria (1902-1957) e di Bonsanti (n. 1904) e nello stesso tempo i rigogliosi fermenti recati da Elio Vittorini (1908-1966), che nutriva una sua istintiva tensione allo scrivere, espressa in Piccola borghesia (1931) e nel Garofano rosso, di una personale conoscenza e interpretazione della letteratura americana che gli consentiva la creazione di un suo lirico e nervoso linguaggio in Conversazione in Sicilia (1941) e in Sardegna come un’infanzia (1936-1952), continuato con esiti meno felici in Uomini e no (1945) e nelle Donne di Messina (1949). Vittorini fu un forte esperimentatore e in seguito una guida per molti scrittori, animato come fu da un’ansia di nuovo che lo vide nel secondo dopoguerra tentare nuovi rapporti tra letteratura e società nel «Politecnico» (1945-1947) e piú tardi tra letteratura e ideologia nel «Menabò» (nato nel 1959). E le successive prove di questa tensione attiva, di questa volontà di presenza, di discussione, di rimeditazione costante di tutta la propria e altrui storia si hanno nel Diario in pubblico (1957) e nelle postume Due tensioni (1967), che sono un ripensamento di tanti fatti letterari e anche una proposta, nutrita di ideologia e di vita morale, sul da fare.

A «Solaria» sono pure legati gli inizi del piú sicuro, forse, dei narratori italiani contemporanei, il piemontese Cesare Pavese (1908-1950), che incominciò con un libro di versi, Lavorare stanca (1936). La sua carriera di narratore tutto immerso nel tempo presente va da Paesi tuoi (1941), dove l’esempio di certi scrittori americani lo aiuta a scoprire se stesso, a Il compagno (1947), Prima che il gallo canti (1949), La bella estate (1949), La luna e i falò (1950), in un progressivo riconoscimento del proprio mondo, diviso tra la campagna delle Langhe piemontesi e la città, sentite in un’originale dimensione esistenziale. Pavese affronta decisamente i problemi e le prospettive del proprio tempo, ma li traduce dentro di sé in una complessa rete di vibrazioni, di sostenuta pietà per la condizione umana e talvolta anche di vitale slancio. Una particolare attenzione va portata poi alla prosa pavesiana, armoniosissima, cadenzata, ricca di succhi lirici, eppure sempre aderente al tessuto della reale condizione che propone. Tale prosa è una conquista e non v’è dubbio che particolarmente complesse sono le vibrazioni che registra nell’ultimo libro di Pavese.

La prospettiva solariana fu ricca di esiti e nutrí nelle loro origini molti scrittori. Si proiettò come una luce nel futuro, fornendo un diverso, piú concreto e radicato legame con la realtà contemporanea, sia nei riguardi dello stile, sia in quelli delle ideologie. Da «Solaria» discende «Letteratura» (1936-1940), che ne fu l’erede piú diretta, approfondí il severo senso della letteratura che «Solaria» aveva propagato. In essa apparvero parecchie pagine di Carlo Emilio Gadda (n. 1893), uno degli scrittori piú rilevanti per ragioni di stile e per senso della drammatica condizione dell’uomo, pur risentita tra sdegnosi rifiuti e sarcastici movimenti, come si rileva ne La Madonna dei filosofi (1931), Il castello di Udine (1934), L’Adalgisa (1944), e soprattutto ne La cognizione del dolore e in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Gadda, che pure è un feroce stimolatore della realtà sociale e mentale, un indagatore perfino spietato delle contraddizioni del cuore e della mente dell’uomo contemporaneo, dei suoi pregiudizi, delle sue manie, della sua enorme sofferenza e della sua ridicola superficialità, è prima di tutto un abilissimo e raffinato intarsiatore di linguaggi, dialetti e lingue: il che fa non come un gioco, ma con un mordente critico veramente originale nei riguardi dei tradizionali e correnti usi letterari.

Da «Solaria» nasce quel fermento d’iniziative che trovò appoggio in altre riviste, come «La ruota», «Corrente», «Primato», che fu la rivista della fronda fascista, la cattolica «Frontespizio», «Campo di Marte». In queste riviste s’espressero spesso gli esponenti dell’ermetismo, poetico e critico, vi fecero le loro prime esperienze i protagonisti del neorealismo e di alcune delle tendenze che sono venute emergendo negli ultimi anni.

8. Alberto Moravia e altri narratori

Un’esperienza piú appartata fu, all’origine della sua attività di scrittore, quella di Alberto Moravia (nato a Roma nel 1907), il cui primo libro, Gli indifferenti (1929), apparve come un’audace accusa contro la borghesia italiana realizzata in un linguaggio lucido e freddo, che subito fu sentito decisamente opposto alla tradizione ormai costituita della prosa d’arte e in genere alla forbitezza formale della prosa italiana. In realtà era questo lo strumento di una spietata analisi della realtà sociale e individuale, dei rapporti tra gli uomini e della psicologia. In Moravia c’è un indagatorè eccezionale, appassionato, risentito della condizione umana non in senso astratto, ma in senso storico-esistenziale preciso, e questa attitudine s’è venuta in lui maturando in opere di varia consistenza, piú disorganica nelle Ambizioni sbagliate (1935), che rappresentano una concessione al romanzesco puro rispetto al primo romanzo in cui l’attenzione è spontaneamente concentrata sui rapporti di alcuni personaggi e sullo scavo dentro di essi; piú intensa e sottilmente drammatica nella Bella vita (1935) e nei Sogni del pigro (1940); venata di ironia nell’Epidemia (1944); straordinariamente tesa nel breve romanzo Agostino (1944), ch’è una penetrazione acutissima per profondità e per taglio della narrazione nei rapporti leggermente vertiginosi di un ragazzo con la madre, svolti nel clima tra tenero e abbacinante di un’estate versiliese; articolata con un gusto fortissimo di disegno dei personaggi nella Romana (1947) e nella Ciociara (1956), che narra vicende del tempo del passaggio della guerra in Italia, e magari anche, con un rischio di eccezionalità che ricade nel romanzesco, nel Conformista (1951); e infine estremamente sofferta nel delineare condizioni molto prossime al nostro tempo odierno, alienate e tormentose, ne La noia (1960) e nell’Attenzione (1965). Né si potranno scordare i Racconti romani, disegni sovente concretissimi di atteggiamenti psicologici, di piccole manie e conseguenti atti quotidiani di tutto un mondo, ritratto non con intenti di resa diretta, ma col sentimento chiaro che la realtà piú vera è quella della dimensione interiore, psicologica, mentale. In questa lunga vicenda di scrutamento acuminato del proprio tempo Moravia ha continuamente perfezionato quel suo lucido strumento espressivo, personalissimo nel suo volontario rifiuto di ogni mezzo stilistico appena un poco rilevato.

Gli anni trenta circa videro nascere molte altre figure di narratori, dei quali vanno ricordati Romano Bilenchi .(Colle Val d’Elsa, 1909), che maturò un suo modo narrativo intento e complesso nel Capofabbrica (1935), in Anna e Bruno, e soprattutto nel Conservatorio di Santa Teresa (1938) e ne La siccità e La miseria (1944); Bonaventura Tecchi (Bagnoregio, 1896-Roma, 1968), interessato a delineare sfumate situazioni interiori in Tre storie d’amore (1932), Giovani amici (1940), Valentina Velier (1950), Gli egoisti (1959), Gli onesti (1965); Gianna Manzini (Pistoia, 1899), assai fine nella penetrazione e nella delineazione dei sentimenti in Tempo innamorato (1928), Lettera all’editore (1945), La sparviera (1956); Mario Soldati (Torino, 1906), scrittore di grande lucidità nell’individuare la dimensione di una società (America, primo amore, 1935) come nell’inseguire le condizioni piú perplesse attraverso intricati casi dell’animo ne La verità sul caso Motta (1941), Le lettere da Capri (1945), Il vero Silvestri (1957), Le due città (1964); Guido Piovene (Vicenza, 1907), acuto indagatore di anime, di densi viluppi interiori sul filo di un cattolicesimo inquieto in Lettere di una novizia (1941), I falsi redentori (1949), Le furie (1963), e anche descrittore di società e paesi in Viaggio in Italia (1958), De America (1953); Tommaso Landolfi (Pico in Ciociaria, 1908), scrittore di larga vena e di complessa fantasia in Dialogo dei massimi sistemi (1937), Mar delle Blatte (1939), Cancroregina (1951), La bière du pécheur (1953), Ottavio di Saint Vincent (1958), Un amore del nostro tempo (1965), Un paniere di chiocciole (1968); Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino, 1910-Venezia, 1965), che ha fermato in una scrittura di classica precisione e di fascinosa morbidezza figure di vecchi (La rosa rossa, 1937) e di adolescenti (L’onda dell’incrociatore, 1947, uno dei libri piú belli della narrativa contemporanea per il calcolato tempo di svolgimento, per la penetrazione dei singoli momenti della vita, dei paesaggi, delle attese e delle risoluzioni) e ha delineato in un ciclo di romanzi «Gli anni verdi» le suggestioni di un mondo perduto, tra incanti e inquietudini. Non andrà dimenticato infine uno scrittore fluente e persuasivo, capace di pietà umana e di densità morale, come Ignazio Silone (1900), abruzzese, con i suoi Fontamara (1930), Pane e vino (1937), Il seme sotto la neve (1940), Una manciata di more (1952) e da ultimo L’avventura di un povero cristiano (1968).

9. L’ermetismo e altri poeti

Mentre nel campo della narrativa si assiste dal 1930 in poi ad una rigogliosa fioritura di nuovi scrittori, che sempre piú coscientemente si rendono conto della necessità di superare la «prosa d’arte» e di affacciarsi ad un mondo di autentica fantasia e realtà, rispondendo al gusto di tracciare concrete storie umane, nella poesia la lezione di Ungaretti prima e di Montale poi tende a chiudersi in un orizzonte piú circoscritto. Nel 1936 Francesco Flora dedicava alla poesia contemporanea un libro che chiaramente imputava ad essa il gusto dell’oscurità e soprattutto la tendenza a chiudersi in un privato assaporamento di una condizione personale. Era La poesia ermetica e questa definizione ebbe tanta fortuna da conglobare in sé un po’ tutta la poesia contemporanea. Ma oggi piú propriamente, avendo ben chiaro che non di oscurità si tratta, ma di tensione ad un lirismo assoluto e ad un analogismo immaginativo e fantastico, potremo indicare con questo nome la poesia che venne dopo e che variamente usufruí dei modelli offerti dagli svolgimenti compresi tra Campana e Montale.

Il maggiore di questi nuovi poeti è Salvatore Quasimodo (Siracusa, 1901-Napoli, 1968), premio Nobel nel 1959. Il tema piú suo, dapprima, è una viva nostalgia della sua antica terra; n’esce il canto colorato di immagini nitidissime anche per il taglio sicuro ma particolare con cui le introduce nei suoi componimenti, delle poesie raccolte nel 1942 in Ed è subito sera. In seguito si volse ad una piú intima e sofferta partecipazione alle vicende storiche del proprio tempo in Giorno dopo giorno (1947). Va segnalata di lui la parola poeticamente densa, suggestiva, che ancora tale si manifesta in La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966).

Altri poeti cercarono una sintesi delle proprie suggestioni private e del proprio mondo con la dimensione analogica dell’espressione con vari risultati, piú coloriti in Alfonso Gatto e in Leonardo Sinisgalli, piú uniformi e riflessivi in Sergio Solmi e in Giorgio Caproni. Un particolare gruppo di ermetici, gli ermetici per eccellenza si potrebbe dire anche per l’apporto ad essi recato da Carlo Bo che comunicò loro esperienze del tardo simbolismo francese e dei suoi sviluppi, fu quello dei fiorentini Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi e soprattutto Mario Luzi (1914), che ha avuto un suo svolgimento piú interessante anche come densità della parola e dell’immagine da Avvento notturno (1940) a Un brindisi (1946) e fino a Onore del vero (1957), Il giusto della vita (1960), Nel magma (1966).

Ma la figura che, al di là delle contingenze del piú chiuso ermetismo, emerge con voce piú sicura e nello stesso tempo complessa per densità morale come per concretezza evocatrice di linguaggio è quella di Vittorio Sereni (Luino, 1913), che da Frontiere e soprattutto da Diario d’Algeria (1947) a Gli strumenti umani (1965) ha mostrato una crescita sicura di voce poetica, una maturazione di cose da dire, una presenza effettiva e aperta per l’uomo contemporaneo.

10. Antonio Gramsci

La figura che ha significato di piú nel rinnovamento postcrociano della cultura italiana è certamente Antonio Gramsci; viene da lui una spinta di rinnovamento che vale a chiarire storicamente e intellettualmente le esigenze e le situazioni formatesi nel paese con la resistenza e la liberazione dal fascismo, che indica una via alla cultura, alle ragioni storiche e sociali di essa: e queste hanno un aspro sapore di novità e si configurano come base di un diverso impegno etico e politico.

Nato ad Ales in Sardegna nel 1891, si formò a Torino negli anni a cavallo della prima guerra; studiò glottologia in quell’Università; fu socialista e giornalista dell’«Avanti!», di cui tenne anche la cronaca teatrale, fu vicino a Gobetti sul quale ebbe, anzi, certo una notevole influenza nell’individuare la connessione tra politica e cultura e nel ripensamento della storia dell’Italia moderna; ebbe una parte di primo piano nelle vicende politiche (fondazione del Partito comunista, 1921) e sociali fino all’instaurazione del fascismo. Condannato nel 1926 a vent’anni di prigionia, passò vari anni nel carcere di Turi e morí a Roma nel 1937.

A parte le sue cronache teatrali e altri suoi scritti prevalentemente politici, tutta la sua opera e il suo pensiero si poterono conoscere e valutare nella loro importanza solo nel secondo dopoguerra quando furono pubblicati i sei volumi dei «Quaderni dal carcere», appunti di lettura, pensieri e programmi, schemi di organizzazione del lavoro intellettuale, ripensamenti e critica della cultura e della tradizione italiana svolti con intelligenza acuminata, con profonda penetrazione delle condizioni storiche e sociali in cui la storia culturale e quella letteraria italiana si svolse nel tempo. Punto di partenza del suo pensiero è la diversa funzione che egli assegna all’intellettuale (specie nel volume Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura), non piú visto come estatico osservatore delle vicende storiche e come tale ridotto a semplice illustratore dell’ideologia della classe dominante, ma impegnato attivamente nella vita pratica in una prospettiva nazionale-popolare. Da questa posizione svolge la sua critica a Croce (Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce) che, come storiografo, «descrive con grande accuratezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale». È per tali contingenze che la letteratura italiana è stata e ha continuato ad essere non popolare, non ha assunto e fatto propri i sentimenti popolari, ma al piú li ha veduti e valutati con benevola indulgenza. Per questo, il significato della parola «nazionale» è stato molto ristretto in Italia, perché ha escluso da sé il popolo ed è stato termine classista: e la letteratura è divenuta sovente libresca e astratta. Gramsci intuisce chiaramente che per fondare una nuova letteratura occorre lottare per una nuova cultura: «La premessa della nuova letteratura non può non essere storica, politica, popolare, deve tendere ad elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa: ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare cosí com’è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale». È questa la tesi di fondo che emerge da Letteratura e vita nazionale; al che bisognerà aggiungere che Gramsci fu tutt’altro che insensibile agli apporti di pensiero del Croce e soprattutto condivise l’impegno di serietà, di scavo, di continuata indagine che è la cultura. Lo si vede in modo esemplare anche per la scrittura che, sempre lucida e articolata in Gramsci, raggiunge toni di limpidità, di chiarezza intellettuale riflesso di quella morale, qui e nelle Lettere dal carcere, lettere a parenti e amici, cariche di affetti, pregne della condizione umana sofferta che Gramsci viveva eppure anche dense della problematica culturale e storica che egli mandava avanti.

11. Il neorealismo e la narrativa del dopoguerra

Se la meditazione gramsciana si trasferisce nella letteratura, il fenomeno che ne pare in buona misura l’attuazione è il neorealismo. Occorre dire subito che le sollecitazioni ad esso venivano da lontano: dall’approccio agli americani che la generazione solariana aveva vissuto, per esempio; per cui poteva già circolare nelle prime opere narrative di Pavese e di Vittorini, quindi da una sempre piú chiara stanchezza della forbitezza formale, dal chiuso mondo che emergeva dalla prosa d’arte sentita come un gusto di evasione e di isolamento. D’altronde sulla scelta di un’attenzione portata verso la realtà sociale, umana, ambientale e inviduale, influiva la via già imboccata da certa cinematografia, quella di Luchino Visconti per esempio. E va detto che l’esperienza cinematografica di Rossellini, Lizzani e altri registi neorealisti accompagna da vicino la vicenda del neorealismo letterario.

La figura che in questa direzione ha maggior spicco, a parte gli avvii e gli elementi di essa in Pavese’ e Vittorini e in altri già segnalati, è quella del fiorentino Vasco Pratolini (1913), che muovendo da una rappresentazione affettuosa di quartieri, ambienti, figure del mondo popolare fiorentino (Il tappeto verde, 1941; Via de’ magazzini, 1942; Il quartiere, 1944), ha sempre piú approfondito la percezione delle vere dimensioni di questo mondo, allargandone la visione dal popolo alla borghesia, investendo la cronaca cittadina di tutte le grandi vicende nazionali, con una narrativa ampia, densa eppure sensibile, sfumata, attenta a ogni movimento. Sono venute cosí prima le Cronache di poveri amanti (1947), romanzo animato da un senso raro di epos popolare-cittadino (è la Firenze degli anni dell’avvento del fascismo), quindi la trilogia Metello, Lo scialo, Allegoria e derisione, che nel suo insieme è un vasto affresco della storia di Firenze e della sua gente negli ultimi settant’anni. E nella narrativa di Pratolini si insinua un calore di lirica che piú esplicitamente si manifesta in Cronaca familiare (1947).

Sulla linea di un realismo attento alla storia e alla società uno scrittore di notevole significato è pure Francesco Jovine, molisano (1902-1950), che in molti racconti e romanzi e soprattutto in Signora Ava (1943) e Terre del Sacramento (1950) ha dato un quadro dolente e vivacissimo del mondo meridionale, della sua borghesia chiusa, del suo popolo paziente e generoso, e lo ha dato con una forza autentica di narratore largo, fluido, pietoso dei casi umani che ha dinanzi, fantasticamente intuiti con rara profondità.

Accanto a Jovine va collocato, per il gusto vivo del raccontare sprofondando in una realtà antica e dolentissima, il sardo Giuseppe Dessí (1909) che da San Silvano (1939), a Michele Boschino (1942), ai Passeri (1955), al Disertore (1961) ha proseguito in un lineare cammino. Un realismo piú minuto, concretato sulla realtà della miseria napoletana, ha praticato Domenico Rea (1921), nonché con un’anticipazione notevole dell’atteggiamento neorealistico l’altro napoletano Carlo Bernari (1909) i cui Tre operai sono del 1934.

Se non a sollecitazioni precisamente neorealistiche, certo a sollecitazioni rispondono le opere tra narrative e saggistiche (opere di memoria e di critica della realtà italiana e moderna) di Carlo Levi (1902), il cui Cristo si è fermato a Eboli (1945), che illumina di piena luce la Lucania paese fermo nel tempo, conosciuto dallo scrittore durante il tempo del confino, è divenuto un classico; ma di cui sono significativi pure Paura della libertà (1946), L’orologio (1950), che concernono l’Italia del tempo successivo alla liberazione, Le parole sono pietre (1955), sulla Sicilia, Tutto il miele è finito (1965), sulla Sardegna; e del piú giovane Leonardo Sciascia (1921), che manda avanti dal Giorno della civetta (1961) a A ciascuno il suo (1966) una forma narrativa e da Il Consiglio d’Egitto (1963) a La morte dell’Inquisitore (1964) una forma di ricostruzione storica che hanno un fondamento appassionatamente pamphlettistico, denunce della condizione umana e sociale nella Sicilia di ieri e di oggi, realizzate con una secca discorsività, di straordinaria efficacia.

Figure da menzionare in un quadro della narrativa del dopoguerra, anche se meno legate o addirittura separate dal gusto e dalle poetiche neorealistiche, sono il siciliano Vitaliano Brancati (1907-1954), i cui Don Giovanni in Sicilia (1942), Il bell’Antonio (1949), Paolo il caldo (1955) appaiono venati di un sottile umorismo e impiantati saldamente nella realtà siciliana, anche per l’uso di una lingua e di una sintassi con venature dialettali; Natalia Ginzburg (1916), sensibile delineatrice di momenti della vita comune che s’intersecano con gli avvenimenti travolgenti della storia da La strada che va in città (1942) a Tutti i nostri ieri (1952), a Lessico familiare (1963); Elsa Morante (Roma, 1912), che finemente ha contemperato fantasia e reale psicologia, con risultati che hanno spesso qualcosa di trasognato, in Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), Lo scialle andaluso (1963).

Anche nella poesia si sono cercate impostazioni realistiche, ma qualche risultato piú consistente, soprattutto per la pienezza della denuncia sociale che ne consegue, è venuto solo da Rocco Scotellaro (1923-1953) con le poesie di È fatto giorno (1954), L’uva puttanella (1955). Ma la poesia di Scotellaro s’appoggia a quel mondo contadino che egli ha studiato nelle inchieste di Contadini del sud (1954).

Per altri narratori certo il momento neorealistico della letteratura del dopoguerra ha significato qualcosa: per alcuni un punto di partenza preciso, per altri una condizione dello scrivere e del raccontare. Un modo per fare i conti con l’amico e maestro Pavese per Italo Calvino (Santiago de las Vegas, 1923), che da un impianto sobrio, tutto fatti, secco, quale si manifestò nel Sentiero dei nidi di ragno (1947) e in Ultimo viene il corvo (1949), è passato ad una fantasiosa costruzione romanzesca, umorosa, validissima per struttura narrativa e per disposizione linguistica qual è quella della trilogia dei Nostri antenati (1952-1960), ma passando anche attraverso un montaggio umoroso della realtà presente nell’Entrata in guerra (1954) e nei Racconti (fra cui notevoli, «La speculazione edilizia», «La nuvola di smog», «La formica argentina») e approdando ad una severa indagine della realtà e delle ideologie nella Giornata di uno scrutatore (1963) e da ultimo alla suggestiva simbolica delle Cosmicomiche (1965) e di Ti con zero (1967). La dimensione neorealistica resta matrice compatta e solida per Beppe Fenoglio (1922-1963) nei Ventitré giorni della città di Alba (1952), Un giorno di fuoco (1963), Il partigiano Johnny, La paga del sabato (postumi).

Altri invece hanno svolto la loro esperienza piuttosto lateralmente al neorealismo: tali Mario Tobino (Viareggio, 1910), un medico che ha scritto per un’esigenza di testimonianza, di umana partecipazione, in uno stile spoglio, parlato, cosí nel Figlio del farmacista (1942) come in Bandiera nera (1950), Il deserto della Libia, Le libere donne di Magliano (1953), La brace dei Biassoli (1956) e da ultimo nel Clandestino (1962), una narrazione di largo respiro sulla resistenza, e in Una giornata con Dufenne (1968), libro di una fermezza umano-ideologica assai rara; Carlo Cassola (Roma, 1917), che, muovendo da brevissimi racconti-appunti su una realtà frammentata e varia (Alla periferia, 1941, La visita, 1942), ha condensato in una scrittura schiva di rilievi, lenta, internamente armonica, ma costruita con le parole piú fruste e quotidiane, i casi umani di personaggi qualsiasi, deliberatamente scelti per la loro semplice umanità, procedendo in questo senso da Il taglio del bosco (1950), che è la sua cosa migliore per l’intensità con cui vengono delineati sentimenti elementari, a Fausto e Anna (1952), al Soldato (1958), Un cuore arido (1961), fino all’estremità quasi qualunquistica di Un cacciatore (1964) e a varie riprese di antichi suoi materiali (Storia di Ada, 1967; Ferrovia locale, 1968; Una relazione, 1969); Guglielmo Petroni (Lucca, 1911), che ha dato il meglio di sé in Il mondo è una prigione (1948) e in La casa si muove (1950); Giorgio Bassani (Bologna, 1916), che disegna nel vivo della sua storia attuale e della sua gente presente una città in Cinque storie ferraresi, intento a guardare nell’intrico dei rapporti umani nel Giardino dei Finzi-Contini (1962), ne Gli occhiali d’oro (1958), fino all’Airone (1968). Vanno infine menzionati fluidi scrittori, che inseguono ostinatamente la delineazione acuta e sofferta del mondo meridionale (che magari finisce col chiuderli in un orizzonte obbligato), come Michele Prisco e Mario Pomilio.

12. La nuova poesia

Accanto agli sviluppi piú recenti della narrativa che si sono venuti accennando si possono collocare contemporanei sviluppi della poesia che ha continuato ad approfondire i campi della comunicazione dell’uomo presente, a scavare nella sua condizione dinanzi alla storia e alla civiltà odierna prevalentemente alla luce dei problemi culturali che si sono accennati e alla ricerca di adeguati modi espressivi. Accanto all’esercizio poetico di figure piú indietro ricordate, come Pavese che in Lavorare stanca (1936) sperimentava un tipo di poesia discorsiva (eppure non priva di illuminazioni) e perfino narrativa, mentre in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951) manifestava un’esigenza poetica piú intensamente lirica, vanno ricordati Andrea Zanzotto (IX Egloghe), che ha tentato una poesia di audaci invenzioni linguistiche determinate dal senso di delusione di fronte al mondo contemporaneo contro il quale cerca di riedificare un mondo totalmente nuovo; Nelo Risi, che con versi secchi e geometrici denuncia l’assurdità della civiltà di massa; Luciano Erba, in cui la stessa accusa si veste dei colori di un passato che si oppone al presente; Bruno Cattafi, che la denuncia svolge in un’implacabile requisitoria, fino all’elenco dei mali contemporanei.

Ma la figura che su tutte s’impone per senso della responsabilità morale e storica connessa al fare poesia, responsabilità che si propone in un linguaggio preciso, lineare, impegnata soprattutto a trasformare la realtà circostante, è quella di Franco Fortini (Firenze, 1917). Tutta la personalità di Fortini si svolge nel segno di un impegno ideologico, da quando nel ’46 metteva insieme le poesie dell’anteguerra e del tempo della guerra partigiana in Foglio di via fino a Poesia ed errore (1959) e Una volta per sempre (1963). Una poesia in cui non solo la validità dell’espressione poetica, ma della stessa dimensione individuale appare concretabile solo nella capacità di diventare voce di tutti: «Com’è chi per sé vuole piú verità / per essere agli altri piú vero e perché gli altri / sono lui stesso, cosí sono vissuto e muoio».

13. Sperimentalismo e nuova avanguardia

Se la formula del neorealismo ha continuato a reggere fin verso gli anni cinquanta inoltrati (e magari può consentire la singolare fortuna di un romanzo storico di strutture spezzate, svolto per momenti staccati di storie umane private e pubbliche, come accade con Il gattopardo, 1959, del palermitano Giuseppe Tomasi di Lampedusa), in seguito se ne avvertí la corrosione, la non adattabilità, la progressiva mancanza di concreto rapporto con le condizioni nuove della nostra società e in genere della civiltà dell’automazione, o terza rivoluzione industriale. In questa le condizioni d’esistenza dell’uomo mutarono perché mutarono non solo i rapporti di produzione, ma i concreti processi di quest’ultima, che riduceva sempre piú al minimo la presenza dell’uomo, travolgeva questo nel suo ritmo incessante, lo rendeva schiavo del sistema ch’essa stabiliva, lo alienava dalla realtà e lo faceva strumento passivo sia nel proprio momento sia in quello del consumo. L’uomo cioè diviene oggetto di sfruttamento non solo del padrone e del regime di produzione, ma anche quando si fa consumatore dei beni prodotti. Questa condizione storica diversa matura lentamente: ma la cultura e la letteratura la vengono avvertendo per tempo e si prospettano l’esigenza di una rappresentazione di ciò e di sufficienti strumenti espressivi. Se ne hanno tracce abbastanza precisabili sia nella narrativa sia nella poesia attraverso un momento detto dello sperimentalismo e un secondo della neoavanguardia.

A simboleggiare il primo si può chiamare il gruppo di scrittori che si radunarono per qualche anno (1955-1959) nella rivista «Officina», di cui il maggiore rappresentante per acutezza, fertilità di invenzioni e continuità nell’operare è Pier Paolo Pasolini (1922), che, dopo un esercizio poetico configurato come recupero, in uno stato storico piú avanzato e cosciente, dei miti cari al decadentismo della fanciullezza, dei paesaggi idillici e ripensati dolcemente nella memoria (Poesie a Casarsa, 1942), svolse la sua coscienza poetica a una delineazione della situazione storica personale (L’usignolo della Chiesa cattolica, 1958) e sociale (Le ceneri di Gramsci, 1959), mentre approfondí e articolò abilmente in un tessuto la sua eccezionale esperienza linguistica e dialettale (con un richiamo esplicito al Gadda piú vistoso esperimentatore di impasti linguistici) non tanto nella poesia quanto nei romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Agisce in questi il sottoproletariato romano, escluso dalla società e dalla stessa città e insieme da questa captato e condizionato. Come anche si può vedere nei romanzi «milanesi» di Giovanni Testori, Il dio di Roserio (1954) e il ciclo «I misteri di Milano» (1958-1961). La denuncia verso le nuove condizioni storiche dell’uomo si palesa qui a un livello basso, per cosí dire. Ma presto si prenderà chiara coscienza della problematica che comporta e sarà a sospingerla ancora Vittorini, il quale in un numero della rivista «Menabò» (1961) dedicato ai rapporti tra letteratura e industria dichiarava che non basta parlare di operai e di fabbriche per avere una letteratura industriale, ma occorre vivere la condizione umana alienata che la nuova fabbrica determina.

Ed ecco muoversi in questa direzione, la nozione della progressiva alienazione dell’uomo dalla realtà, romanzieri e poeti: Paolo Volponi (Urbino, 1924), poeta vago della sua terra in Le porte dell’Appennino (1960) e sensibile documentatore dell’alienazione nei romanzi Il memoriale (1962) e La macchina mondiale (1965); Giuseppe Berto (1915), che dopo inizi neorealistici (Il cielo è rosso, 1947) è passato decisamente a questa nuova letteratura dell’alienazione che mette a frutto il monologo interiore (tradotto da una tradizione che deriva da Joyce e da Svevo) nel Male oscuro (1964); Oreste Del Buono (1923), che invece svolge la sua narrativa in un ritmo nervoso, ma continuato, ossessivo, quasi fatale, che si può chiamare del «monologo esteriore», di discorso cioè appoggiato agli oggetti fuori di noi (Acqua alla gola, 1955, Per pura ingratitudine, 1961); Goffredo Parise (1929), che diede dapprima romanzi intensamente lirici (Il ragazzo morto e le comete, 1951), poi altri fondati su umorose figure (Il prete bello, 1954) e infine grosse caricature della civiltà dell’alienazione (Il padrone, 1965); Giovanni Arpino (1927), mosso anch’egli da una matrice neorealistica svolta poi in un’esigenza di adesione al mondo contemporaneo ideologicamente sostenuta (Sei stato felice, Giovanni, 1952; La suora giovane, 1959; Un delitto d’onore, 1961; Una nuvola d’ira, 1962; L’ombra delle colline, 1964).

Ma tutto questo orientamento tende la mano agli sviluppi successivi in una letteratura che sceglie la via della diretta rappresentazione dell’interiore scissione dell’uomo: nascono opere fatte di pure suggestioni ora psichiche ora letterarie. Si potrà ricordare prima di tutto Antonio Pizzuto, venuto tardi alla letteratura con una carica enorme di volontà rappresentativa figurativo-verbale (Signorina Rosina, 1956; Si riparano bambole, 1959; Ravenna, 1962); quindi la neoavanguardia, che porta dentro di sé una dura polemica (non da tutti accettata e da parecchi risolta con un recupero) contro le ideologie che appaiono travolte dalla tecnica e dall’alienazione.

Per la poesia è documento di questi nuovi atteggiamenti l’antologia dei «Novissimi» che comprende poesie di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta. Per la prosa, che si propone sovente come progetto circa il maneggio della letteratura, si potrà vedere Capriccio italiano di Sanguineti e ricavare qualche frutto dai libri di Germano Lombardi, Barcellona (1963), L’occhio di Heinrich (1965).

14. La critica

Nella vicenda della letteratura contemporanea, proprio per il costante e sempre piú profondo rapporto in cui questa si viene a trovare in ogni momento del suo svolgimento con la cultura nel suo insieme, un posto di grande responsabilità ideologica e morale ha la critica letteraria, che trova impegnati sovente, come è accaduto di osservare, scrittori e poeti, da Cecchi a Montale, da Bontempelli a Vittorini, per citare solo alcuni di coloro la cui produzione critica è impegno e stimolo della produzione artistica. La critica del Novecento si è mossa dalla sua matrice crociana discutendo spesso con essa, dapprima insoddisfatta, come nei vociani, dalla rigida fermezza del giudizio crociano, dalla mancanza di umanità che accusava in esso, di poi dalla scarsa attenzione di Croce ai valori formali, come in Serra, in seguito sentendo fortemente l’importanza di un congiungimento della poesia con la storia.

Singolarmente vicina al mondo vociano, per tendenza non per rapporti concreti, è l’ispirazione critica di Eugenio Donadoni (1870-1924), che diede il meglio di sé in vaste monografie su Foscolo, Tasso, Fogazzaro. Una sensibilità singolare al linguaggio poetico ha mostrato Cesare De Lollis (1863-1928) nei Saggi sulla forma poetica italiana dell’800 e da lui deriva in parte la notevole prospettiva critica di Domenico Petrini, morto prematuramente nel 1929. Dalla sensibilità letteraria serriana discende la lettura di Giuseppe De Robertis (1888-1963), temperamento sottile e analitico, realizzatosi in una vibratile auscultazione della poesia nei suoi valori formali e musicali specie nel Saggio sul Leopardi (1944) e in Scrittori del ’900 (1940). Una particolare attenzione ai mezzi espressivi succedette ad una formazione crociana nello svolgimento di Alfredo Gargiulo (D’Annunzio, 1912; La letteratura italiana del ’900). Una forte ispirazione, assai libera dalle definizioni crociane, guidò Attilio Momigliano (1883-1952), acuto interprete di mondi poetici dal Porta al Manzoni, a Dante, Ariosto, Verga. Piú vicino al crocianesimo nello sviluppare i nuclei dei poeti fu Francesco Flora (1891-1962), anche vivamente teso a coordinare in prospettive storiche la poesia (Dal romanticismo al futurismo, 1921; Storia della letteratura italiana, 1940). Non per caso muove dall’interpretazione di Verga l’attività di quella vigorosa tempra di critico che fu Luigi Russo (1892-1961), il quale predilesse i narratori, ricostruí età e svolte della cultura (F. De Sanctis e la cultura napoletana, 1928), e della critica in particolare (La critica italiana contemporanea, 1942-1943), e costituí coi Ritratti e disegni storici un saldo schema della storia letteraria. Per la forza dell’inquadratura storica nascente dall’individuazione delle ragioni culturali e poetiche si segnala Natalino Sapegno (1901) col Trecento (1934) e il Compendio storico della letteratura italiana. Scrutatore assiduo di mondi poetici si mostra Mario Fubini (1900) in saggi sul Foscolo e sull’Alfieri, svolgendo in seguito vivi interessi per i fatti di stile e di cultura. Allo studio dello stile si è dedicato particolarmente il critico e filologo Gianfranco Contini (Esercizi di lettura, 1939; Un anno di letteratura, 1942). Una singolare figura di critico militante fu Pietro Pancrazi (1893-1952), come, con modi molto diversi, lo fu Giacomo Debenedetti (1901-1968).

I nomi da ricordare, le tendenze da evidenziare, i risultati documentabili sarebbero molti. Sommariamente basterà dire che nella crisi del crocianesimo la critica si è volta soprattutto alla valutazione di tre aspetti del fare letterario: lo stile (e qualche critico che si segnala in questa direzione l’abbiamo già nominato: si potranno aggiungere Antonio Pagliaro, Alfredo Schiaffini, Giacomo Devoto, tenendo conto anche di linguisti come Benvenuto Terracini, Bruno Migliorini, Gianfranco Folena), la società (e una particolare linea dell’attività critica variamente s’ispira al marxismo: si ricordino Carlo Salinari, Gaetano Trombatore, Carlo Muscetta e Giuseppe Petronio); la poetica (che è concetto variamente usato, o come insieme delle idee sull’arte di un poeta quale lo concepisce Luciano Anceschi in Autonomia ed eteronomia dell’arte e nelle Poetiche del ’900, o come, oltre a questo, cultura, riflessione morale, giudizio critico sul fatto artistico, esperienza umana, tensione alla poesia, secondo una prospettiva storico-critica cui s’ispira – anche in rapporto con la feconda lezione del Russo – l’attività critica degli autori del presente manuale). Piú sovente è accaduto che questi elementi siano stati variamente fusi nella pratica critica: si possono ricordare ancora, fra attività critica e attività filologica (e maestro di filologia italiana fu Michele Barbi, 1867-1941) dedicate allo studio della letteratura italiana, Umberto Bosco, Raffaele Spongano, Giovanni Getto, Vittore Branca, Lanfranco Caretti, Vincenzo Pernicone, Mario Sansone, Carlo Dionisotti, Mario Apollonio, Claudio Varese, mentre saran da ricordare pure almeno alcuni dei maggiori filologi e critici delle letterature antiche (Giorgio Pasquali, 1885-1952; Concetto Marchesi, 1878-1957; Manara Valgimigli, 1876-1967) e delle letterature straniere (Luigi Foscolo Benedetto, 1888-1960; Mario Praz, Giovanni Macchia).

Intanto la curiosità verso le metodologie critiche cresce, i fermenti che si registrano sono molteplici e non sempre caratterizzati da chiarezza: come si può vedere negli sbandamenti che ha generato la conoscenza in Italia dello strutturalismo che ha origine da un’attenzione troppo esclusivamente rivolta ai fatti formali, troppo aliena da quella piú completa valutazione storicistica della letteratura che rimane esigenza essenziale e irrinunciabile.